“Non auguro neppure al diavolo un dolore così”. Così un genitore Somalo, Ahmed Rahean, dopo aver perso i suoi cari, vittime di una mina, in fuga dalla Somalia verso il campo profughi più grande al mondo, Dadaab, nella zona desertica nel Nord Est del Kenya, dove gli uomini dell’UNHRC e CARE accolgono tutti quegli uomini che come Ahmed scappano dalla Somalia in guerra spesso lasciando tristemente per strada coniugi e genitori spossati o figli che non ce la fanno più a lottare in questa vita. Il campo ospita circa 500.000 rifugiati, una volta e mezza una città come Bologna.
Il quinquennio 2006 – 2011 fu il più difficile per Dadaab, in concomitanza con una recrudescenza degli scontri in Somalia ed all’abbattersi della carestia. Il 2011, con un aumento delle piogge ed un allentarsi della morsa militare in Somalia, è stato caratterizzato da una leggera diminuzione di presenze in un campo che rimane comunque sempre sotto continuo stress.
Ed è proprio in questo contesto che neanche una settimana fa, il 15 marzo, un uomo armato ha ucciso due civili e ferito un terzo. Come nota Fides Maria Grazia Krawczyk, responsabile di Caritas Somalia, gli episodi di violenza crescono in un campo in cui l’integrazione diventa sempre più difficile a causa del crescente numero di persone che iniziano a dividersi in fazioni e tribù e che si vedono costrette a contendersi una porzione di terra molto piccola.
La Somalia brucia, e dal Kenya si odono voci strazianti.
Graziano G. Curri
Fonti: Wikipedia, Panorama.it